Per spiegare alle ragazze e ai ragazzi più giovani l’entità dei crimini del nazifascismo non bastano i manuali. In questo caso, i dati diacronici, seppur necessari, non sono sufficienti affinché la Storia conservi il suo valore paradigmatico. E senza un’immersione consapevole nel vissuto delle vittime, le celebrazioni ufficiali rischiano di diventare atti commemorativi automatici. Di tutto questo sono convinti la professoressa Ottino e il professor Conte, che hanno scritto il loro ultimo libro proprio per spiegare alle studentesse e agli studenti delle scuole medie cosa ha significato davvero la Shoah .
Susanna e gli orchi – questo il titolo della loro opera – trae le fila dalla testimonianza di Susanna Rawhe, deportata da piccola in un campo di concentramento per soli adulti, nell’attuale Ucraina. I genitori, condannati alla detenzione perché ebrei, pur di non separarsi dalla figlia, l’hanno portata furtivamente con loro e l’hanno tenuta al riparo dalle SS fino alla Liberazione. Per la piccola Rawhe è stata dura essere invisibile. Durante le ore diurne era costretta a rimanere nascosta in una nicchia scavata nella terra, coperta da una catasta di legna. Senza la sua grande capacità immaginifica non ce l’avrebbe fatta.
Partendo da questa testimonianza, con la loro opera, gli scrittori hanno cercato di instaurare un equilibrio nuovo tra le strategie della pedagogia, le forme della letteratura per ragazzi e la ferita storica della deportazione di massa. Quello che leggiamo oggi è un libro proteiforme e originale, che non teme di considerare i lettori più giovani alla pari di quelli più adulti.
Ottino e Conte non hanno indugiato sul dolore e sulla violenza dell’epoca dei totalitarismi, ma si sono rifiutati di approssimarne o negarne l’esistenza solo per la convinzione presuntuosa che i ragazzi non sappiamo decodificarla. Non hanno masticato la realtà per offrirne la versione digerita, ma si sono attivati per disvelarne la complessità. In effetti, l’impianto fiabesco – adottato sotto l’influenza della lezione calviniana – non edulcora banalmente l’esperienza di Rawhe, ma quasi ne esibisce la drammaticità. L’universo parallelo e interiore che la bambina costruisce per sfuggire alla solitudine – anche se fatto di buffi animali parlanti – più che alleggerire lo scenario finisce per rimarcare i sentimenti di solitudine e di angoscia derivanti dalla prigionia. Se da una parte la dimensione fittizia è per Susanna salvifica e costituisce l’invito degli scrittori a credere nella potenza dell’immaginazione; dall’altra palesa l’assenza di vie di fuga concrete. La coltivazione di un mondo irreale serve a Susanna per ordinare quello esistente, ma non la aiuta ad astrarsi dalla circostanza bellica, che invade tutta la realtà, sia quella vissuta, sia quella immaginata. Insomma, la fantasia può salvare la vita, ma non cancellare certe tangibili brutture. Le brutture della vita nel lager sono, inoltre, rimarcate dalle tavole del disegnatore argentino David Rodríguez che, attraverso il bianco e nero e il suo tratto stilizzato, si impegna a restituire quel genocidio in modo realistico.
Certamente non manca una rappresentazione più confortante dell’essere umano – soprattutto nella descrizione degli atti di cura prestati a Susanna dagli altri deportati -, ma nel libro di Ottino e Conte c’è tanta cruda verità. Per questo forse gli autori non si sono accontentati di descrivere il passato di Susanna, e hanno preferito intervallare le vicende del 1942 con quelle vissute dalla Rawhe adulta, immortalata nel tentativo di ricostruire la sua memoria attraverso gli occhi materni. In fondo più sconfortante della prigionia per una deportata, c’è forse solo il suo ricordo. Ottino e Conte, credendo nel potere educativo della lettura, hanno provato a dare senso al sacrificio che l’atto di ricordare e testimoniare gli orrori dell’Olocausto comportano.